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Non si configura il reato di dichiarazione fraudolenta mediante l'utilizzo di fatture per operazioni inesistenti nei confronti degli amministratori della società qualora ciascuno di essi sia titolare di poteri di amministrazione disgiunta

Matteo Santamaria

La sentenza in commento affronta lo spinoso tema della responsabilità penale dei componenti del Consiglio di Amministrazione di una società di capitali senza specifiche deleghe in merito alla presentazione delle dichiarazioni dei redditi.

Più nello specifico, la questione giuridica sottoposta alla Suprema Corte era quella di individuare se ed eventualmente in che termini i componenti senza deleghe di un Consiglio di Amministrazione possano rispondere del reato di dichiarazione fraudolenta mediante l’utilizzo di fatture per operazioni inesistenti, ex art. 2 D. Lgs. 74/2000.

Gli Ermellini nella sentenza in commento hanno sancito il principio secondo il quale “... in tema di reati tributari, nel caso di delitto deliberato e direttamente realizzato da singoli componenti del consiglio di amministrazione di una società di capitali nel cui ambito non sia stata conferita alcuna specifica delega, ciascuno degli altri amministratori risponde a titolo di concorso per omesso impedimento dell'evento, ove sia ravvisabile una violazione dolosa dello specifico obbligo di vigilanza e di controllo sull'andamento della gestione societaria derivante dalla posizione di garanzia di cui all'art. 2392 cod. Civ"

Il Giudice nomofilattico, pertanto, sotto il profilo strettamente oggettivo intende sovvertire gli ordinari canoni del concorso di persone (artt. 110 e ss. c.p.) per affidare la responsabilità dei membri del Consiglio di Amministrazione sprovvisti di deleghe all’istituto previsto dall’art. 40 capoverso c.p.

Tale interpretazione, presa in prestito dai reati fallimentari, non convince e, a chi scrive, appare frutto di un errore prospettico.

L’art. 40 capoverso c.p. fa espresso riferimento ad un obbligo di impedire l’evento del reato contestato.

Aderendo ad una rigorosa interpretazione di tale istituto ed alla ratio ad esso sottesa, non sembrerebbe possibile stravolgere il senso dell’art. 40 cpv c.p. ricavando un evento – non previsto dalla fattispecie incriminatrice – da una disciplina generale prevista dal codice civile.

Così facendo, viene completamente frustrata e aggirata la ratio sottesa alla posizione di garanzia penalmente rilevante.

Per applicare l’istituto contenuto nell’art. 40 cpv. c.p. al consigliere senza deleghe, sembrerebbe necessario verificare se costui avesse i poteri e l’obbligo giuridico di impedire l’evento previsto dal delitto contestato, piuttosto che uno degli eventi di carattere generale indicati nella disciplina civilistica (art. 2392 c.c.), in alcun modo dichiarati – neanche indirettamente - dalla fattispecie criminosa.

Occorrerebbe allora verificare quale sia l’evento del reato previsto dall’art. 2 D. Lgs. 74/2000 e quale sia l’obbligo giuridico di impedirlo in capo al consigliere privo di deleghe.

Come noto, il delitto previsto e punito dall’art. 2 D. Lgs. 74/2000 è un reato di mera condotta (Cfr. Cass. III Pen., 20.01.2020, sent. n. 1998).

Il primo quesito che occorre porsi è, allora, se è possibile applicare l’art. 40 capoverso c.p. – che richiede di impedire l’evento – ad un reato in cui l’evento non è normativamente previsto.

Sul tema, giurisprudenza e dottrina hanno un orientamento schizofrenico.

Deve essere evidenziato, tuttavia, come la maggior parte dei provvedimenti ritengano impossibile applicare l’art. 40 cpv. a reati in cui manchi un evento in senso naturalistico e, pertanto, l’utilizzo di tale istituto nell’ambito dell’art. 2 D. Lgs. 74/2000 sembrerebbe una forzatura.

L’orientamento contrario, viceversa, fa riferimento ad un evento da intendersi in senso giuridico.

Se si volesse aderire a questo secondo filone interpretativo, per contestare al consigliere senza deleghe il delitto di cui all’art. 2 D. Lgs. 74/2000, sarebbe opportuno verificare quale sia l’evento giuridico del reato in esame.

Ad avviso di chi scrive, in questo caso l’evento giuridico dovrebbe coincidere con il bene tutelato dalla fattispecie penale, che è rappresentato dall’interesse dell’Erario a non vedere ostacolata l’attività di accertamento fiscale e la conseguente corretta percezione del tributo.

Dunque, appare più coerente rispetto ai principi dell’ordinamento affermare che quello appena citato debba essere l’evento rispetto al quale il consigliere senza deleghe dovrebbe avere l’obbligo giuridico di impedire l’evento (e non l’art. 2392 c.c.).

Di conseguenza, in capo al consigliere sprovvisto di deleghe non grava alcun obbligo giuridico di impedire quell’evento del reato.

L’errore prospettico, quindi, consiste nella circostanza che l’evento a cui fa riferimento la Suprema Corte di Cassazione - impedire che si verifichino danni alla società - non corrisponde all’evento della fattispecie criminosa e pertanto non appare corretto individuarlo come evento da impedire ex art. 40 cpv. c.p.

Ad avviso di chi scrive, un’interpretazione più aderente al dettato normativo imporrerebbe una valutazione in termini di concorso puro, verificando pertanto in concreto il contributo che veniva fornito dal consigliere senza deleghe a chi aveva il compito di presentare la dichiarazione, anche eventualmente solo in termini di agevolazione o rafforzamento del proposito criminoso.

La sentenza in argomento prosegue, poi, nell’analisi del coefficiente psicologico.

A tale proposito, il Giudice di Legittimità, ripercorrendo i principi dettati in tema di bancarotta, ha affermato che è possibile affermare la penale responsabilità dell’amministratore non operativo solo laddove “... emerga la prova, da un lato, dell'effettiva conoscenza di fatti pregiudizievoli per la società o, quanto meno, di "segnali di allarme" inequivocabili dai quali desumere, secondo i criteri propri del dolo eventuale, l'accettazione del rischio del verificarsi dell'evento illecito e, dall'altro, della volontà, nella forma del dolo indiretto, di non attivarsi per scongiurare detto evento”.

Traslando tale ermeneusi sul reato quivi analizzato, la Suprema Corte ha stabilito che “... sembra ragionevole ritenere che gli amministratori di una società i quali non abbiano sottoscritto una dichiarazione fiscale fraudolenta mediante l'utilizzo di fatture per operazioni inesistenti, perché a ciò abbia provveduto un altro di essi nell'esercizio di funzioni a lui attribuite anche «in concreto», rispondono in concorso del reato di cui all'art. 2 d.lgs. n. 74 del 2000 solo se abbiano avuto conoscenza dell'inserimento di tali documenti mendaci in contabilità e, ciononostante, non si siano attivati per impedirne l'indicazione nella dichiarazione o per impedire la presentazione di questa

La Corte di Cassazione, in altre parole, per evitare di incorrere nel rischio di sanzionare il consigliere senza deleghe per una sorta di responsabilità da posizione, richiede che il componente del Consiglio di Amministrazione sia quantomeno a conoscenza che nella dichiarazione siano stati inseriti elementi fittizi e che di tale circostanza ne sia fornita una prova rigorosa.

Applicando tali principi, la Suprema Corte, nel caso in esame, ha annullato la sentenza della Corte di Appello con cui erano stati condannati i due consiglieri senza deleghe per il reato di cui all’art. 2 D. Lgs. 74/2000 poiché il giudice distrettuale aveva fornito una spiegazione meramente presuntiva della conoscenza in capo a costoro dell’utilizzo di fatture emesse per prestazioni inesistenti.

Il Giudice nomofilattico, infatti, ha chiarito che “... la partecipazione dei due ricorrenti alle scelte gestionali della società, sebbene ragionevolmente implicata dal loro ruolo di amministratori, non significa necessariamente coinvolgimento nelle specifiche operazioni economiche alle quali si riferiscono le fatture per operazioni soggettivamente inesistenti, a maggior ragione perché all'impresa erano preposti tre amministratori, titolari, ciascuno, di poteri di amministrazione disgiunta”.

Apprezzabile è, dunque, il tentativo degli Ermellini di rendere conforme al dettato costituzionale una lettura complessiva della fattispecie criminosa, che, come si è visto, appare trascendere rispetto ai canonici criteri interpretativi.

Resta da capire se la conoscenza delle operazioni economiche alle quali si riferiscono le fatture per prestazioni inesistenti possa essere dedotta, come nella bancarotta, a titolo di dolo eventuale nella misura in cui vi erano stati dei “segnali di allarme” ovvero se sia necessaria una prova rigorosa della effettiva conoscenza.

Dalla lettura della motivazione in commento, sembrerebbe che la Suprema Corte si sia orientata per questo secondo canone interpretativo, ciononostante, il richiamo alla bancarotta fraudolenta ed ai segnali di allarme rischia di essere fuorviante.

Argomento: Reati tributari
Sezione: Sezione Semplice

(Cass. Pen., Sez. III, 18 luglio 2023, n. 31017)

Stralcio a cura di Lorenzo Litterio

“(…) 3.1. La questione posta attiene alla individuazione dei criteri di imputazione della responsabilità per il reato di dichiarazione fraudolenta mediante l'utilizzo di fatture per operazioni inesistenti agli amministratori di una società i quali non abbiano sottoscritto o presentato la dichiarazione. Secondo l'unico precedente specifico massimato, in tema di reati tributari, nel caso di delitto deliberato e direttamente realizzato da singoli componenti del consiglio di amministrazione di una società di capitali nel cui ambito non sia stata conferita alcuna specifica delega, ciascuno degli altri amministratori risponde a titolo di concorso per omesso impedimento dell'evento, ove sia ravvisabile una violazione dolosa dello specifico obbligo di vigilanza e di controllo sull'andamento della gestione societaria derivante dalla posizione di garanzia di cui all'art. 2392 cod. civ. (…). Questo precedente si pone in linea con l'orientamento consolidato in materia di bancarotta fraudolenta. Invero, costituisce affermazione costante nella giurisprudenza di legittimità quella secondo cui, in tema di bancarotta fraudolenta patrimoniale, il concorso per omesso impedimento dell'evento dell'amministratore privo di delega è configurabile quando, nel quadro di una specifica contestualizzazione delle condotte illecite tenute dai consiglieri operativi in rapporto alle concrete modalità di funzionamento del consiglio di amministrazione, emerga la prova, da un lato, dell'effettiva conoscenza di fatti pregiudizievoli per la società o, quanto meno, di "segnali di allarme" inequivocabili dai quali desumere, secondo i criteri propri del dolo eventuale, l'accettazione del rischio del verificarsi dell'evento illecito e, dall'altro, della volontà, nella forma del dolo indiretto, di non attivarsi per scongiurare detto evento (…). Il principio indicato si collega, fondamentalmente, alla disciplina fissata dall'art. 2392 cod. civ. Secondo questa disposizione, per quanto di specifico interesse ai fini della soluzione della questione in esame, gli amministratori di una società non rispondono delle violazione dei doveri ad essi imposti dalla legge o dallo statuto in relazione a fatti commessi da "colleghi" nell'esercizio «di attribuzioni del comitato esecutivo o di funzioni in concreto attribuite ad uno o più amministratori» (primo comma), salvo essere «solidalmente [continua ..]

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